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07 novembre 2005

AL LOWRY DI MANCHESTER



A prima vista sembra di stare sulla sponda del nostro Lago Maggiore. Sulla riva di un canale cittadino, un tempo unica via dove transitavano le merci qui prodotte che venivano poi imbarcate a Liverpool, ci sono i pescatori abituali della domenica mattina. C’è un insolito sole autunnale e, poco più in là, alcune donne di mezza età, tirate a lucido in divisa d’ordinanza gialla e fucsia di una Charity (tipica istituzione di volontariato anglosassone), raccolgono su un ponticello gli spiccioli dei passanti con l’ausilio di un rubizzo suonatore di cornamusa delle vicine Highlands.
Sono a Manchester, la città dove nacque la rivoluzione industriale alla fine del Settecento, come recitano diligentemente le guide turistiche e i sussidiari di geografia della nostra vetusta scuola dell’obbligo. La realtà che si presenta ai miei occhi è ben diversa: le industrie, se ci sono ancora, devono essere nascoste nella zona periferica a ridosso della cosiddetta Greater Manchester. Infatti, camminando dal municipio fino all’oggetto delle mie attenzioni, le ampie strade lasciano intravedere solo grandi alberghi, uffici, negozi, pubs e abitazioni vecchie ma non decrepite: dappertutto occhieggiano spazi insperati di verde davvero ben tenuti.
E’ domenica mattina: c’è chi si reca in tutta fretta alla cattedrale cattolica, chi accompagna i figlioletti alla imponente “Millennium Wheel”, la giostra gigantesca paradiso dei piccoli di quassù, chi discute di fronte all’immancabile birretta, magari accompagnata dalla impresentabile – per noi italiani, così buongustai – tortina ripiena di ragù di carne andato a male: è l’unica nota stonata, però . . .
Arrivando a piedi nell’ex quartiere dormitorio di Salford, si staglia maestoso nel cielo insolitamente azzurro di ottobre il Lowry, un centro polifunzionale che lascia chiunque lo veda per la prima volta letteralmente di stucco. Sorto nell’anno 2000 in occasione dei Giochi del Commonwealth, è dedicato dai Mancunians – così amano definirsi i simpatici abitanti del capoluogo del Lancashire – a Stephen Lowry, un uomo dalla doppia vita.
Nato nel 1887 nel quartiere operaio dell’Old Trafford, fu per tutti un rigido sollicitor, cioè un procuratore legale, di una grossa banca cittadina: passò buona parte della sua vita a controllare e a relazionare caso per caso i crediti da esigere presso i correntisti. Ammiratore sconfinato del mitico doganiere Rosseau, mise a frutto la sua frequentazione nelle ore serali dell’istituto delle Belle Arti sotto casa per coltivare, romanticamente solo, il sogno mai realizzato della sua vita: ritirarsi appena possibile a dipingere in qualche porto della Cornovaglia i suoi diletti velieri e pescherecci.
Un po’ per volta la realtà che lo circondava, cioè la sua città attanagliata dalla crisi industriale, lo distolse da quest’obiettivo. Sul suo taccuino d’infaticabile bozzettista, al posto degli alberi delle navi o dei moli dei porti anglosassoni, trovarono invece spazio i volti allucinati dalla miseria incombente dei suoi concittadini, le ciminiere fumanti delle industrie sempre più in difficoltà, i palazzi della ricca borghesia fianco a fianco con i miseri tuguri delle periferie e, soprattutto, le piazze brulicanti di povera, ma febbrile esistenza.
Lowry fu allo stesso modo di Charles Dickens il testimone lucido di un’epoca che ha contraddistinto non solo l’Inghilterra, ma l’intera comunità occidentale.
E’ proprio a Salford, alle soglie del nostro secolo, che Manchester ha utilizzato i fondi stanziati dal governo centrale per celebrare la memoria del suo illustre pittore.
Riuniti in un unico corpo architettonico ci sono: due teatri, uno lirico e l’altro di prosa, otto sale cinematografiche, un ipermercato, una trentina di negozi, otto ristoranti e altrettanti bar, due gallerie d’arte, una delle quali dedicate a Lowry stesso e alla sua sterminata produzione. Tutto ciò su una superficie, immensa ma ariosa, di 1610 metri quadri.
E’ impressionante il colpo d’occhio per ogni visitatore occasionale che abbia un qualche sensibilità per il Bello. “Questa sì che è vera architettura moderna!” ho subito pensato ammirato fra me e me, rivisitando in un rapido flashback mostri edilizi nostrani quali il ripugnante Lingotto Fiere di Torino, il progetto, per ora fortunatamente solo minacciato, del nuovo porto di Genova o la vomitevole cattedrale al neo-Santo Pio da Pietralcina.
La gente che passeggia per il Lowry è consapevole protagonista di questo luogo insolito: persone di ogni età, razza e condizione sociale s’incontrano amichevolmente in uno spazio un tempo sovrabbondante di fabbriche, vaporetti, uffici nei lunghi e tormentati anni della Rivoluzione Industriale. Le loro espressioni, c’è da giurarlo, sono molto più rilassate rispetto a quelle dei poveri lavoratori di allora: testimoniano in modo tangibile quanto bene faccia il Progresso, se ben governato da bravi amministratori come quelli britannici, rispettosi del luogo, del tempo e delle tradizioni. Esattamente all’opposto di quando capita nella nostra Italia, purtroppo!

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