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16 settembre 2003

UNA PITTRICE AL COTTOLENGO

“Un luogo lontano dalle meschinerie del mondo”: così Anna Sogno, vedova del celebre Edgardo, scomparso proprio un anno fa, descrive il luogo simbolo della Torino sociale, l’Ospedale Cottolengo.
Al termine dei turbinosi anni Novanta, quando la vicenda politica ed umana del marito occupava le prime pagine dei quotidiani nazionali, questa donna dal sorriso eternamente stampato sul volto e dallo sguardo sognante confessa di aver provato molto imbarazzo a chiedere di entrare fra quelle mura avvolte dal mistero.
La sua grande passione per la pittura, ereditata dal bisavolo milanese, uno dei fondatori del movimento della Scapigliatura, le era stata d’aiuto nel riprodurre gli angoli del pianeta visitati al seguito del suo amato Eddie, ambasciatore della patria servita con orgoglio e sprezzo del pericolo durante la Resistenza al nazifascismo.
I quadri della sua casa torinese ripropongono paesaggi e ritratti della Birmania, oggi ribattezzata da uno dei regimi più crudeli ed assolutisti al mondo Myanmar, dove i due coniugi videro dal 1967 al 1971 la sconvolgente miseria della popolazione locale vessata da una classe dirigente avida e corrotta.
Ebbene il desiderio di dipingere i mille volti dell’universo sconosciuto ai più che il Cottolengo ospita da quasi duecento anni spinse Anna ad entrare per una sorta di reportage da pubblicare in occasione delle celebrazioni del Giubileo 2000.
Fu una sorpresa assoluta: mai si sarebbe aspettata un’atmosfera di pace, di operosità e di felice complicità fra gli sfortunati ospiti e l’esercito di religiosi e laici dedito al loro sostentamento.
Ecco che nei suoi bellissimi dipinti Anna ha colto magistralmente vari aspetti del vivere quotidiano; suorine intente a cucinare o a rassettare le stanze dei malati suggeriscono il ricordo delle ore passate lì ad osservare e ad osservarsi.
Anna Sogno infatti racconta di aver imparato per la prima volta nella sua vita cosa fosse il vero disagio, la diversità supposta fra esseri umani le è parsa scomparire di fronte alla solidarietà genuina fra gli ospiti, quasi tutti condannati a vita a restare confinati al Cottolengo, e le persone cosiddette normali al loro fianco.
“Quanti scherzi ho visto fare gli uni agli altri: come se fossi tornata all’asilo!” ride divertita al pensiero e intanto confessa il suo legame affettivo verso quel personaggio, dipinto con grande maestria, che Vita pubblica qui a lato.
“Stavo nelle cucine intenta a creare un bozzetto e, mentre parlavo con una suora, mi sentii toccare una spalla: era Monsu Luis, noto a tutti per la sua gentilezza inframezzata a vuoti improvvisi di mente, che voleva assolutamente parlarmi da solo. L’amica religiosa strizzò un occhio, finse di dover uscire per una commissione e ci lasciò soli: nessuno di noi aveva mai visto prima l’altro, ma per una buona mezzora credo di aver ascoltato un uomo dolce e fiero di sè, quasi fosse il sosia di mio marito, e a distanza di anni la sua immagine sintetizza a meraviglia la mia bella esperienza al Cottolengo!”.


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