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03 luglio 2006

LIBERALIZZAZIONI: DUE ITALIE ALLA FINESTRA



Ci sono due Italie che lavorano, quasi all’insaputa l’una dell’altra, da tempo immemorabile. Sono due comparti di lavoratori che, a volte, combattono lancia in resta per difendere i rispettivi privilegi col risultato, davvero avvilente, di bloccare la ripresa economica del nostro sistema paese.
Da una parte c’è il cosiddetto pubblico impiego: amministrazione dello stato su vari livelli, pubblica istruzione, università, magistratura si avvalgono degli sforzi raramente coordinati fra loro di milioni di persone in larga parte volenterose. Il risultato di questo lavorio cieco e improduttivo è una demotivazione di fondo pericolosa, difficile da estirpare e perciò gravemente lesiva del funzionamento della macchina statale.
Dall’altra parte ci sono i lavoratori autonomi e i dipendenti dei soggetti privati. Fra questi soggetti meritano un cenno particolare le grandi imprese, le grandi aziende ex statali e da poco privatizzate e le banche d’interesse nazionale. Chi ci lavora vive spesso in un mondo tutto suo, una specie di fortino inaccessibile agli altri in cui miserie personali, lobbies trasversali e sudditanze psicologiche vengono spesso spacciati come diritti inalienabili. Anche qui un freno a mano invisibile sembra essere stato tirato da qualcuno, impedendo di fatto di migliorare le condizioni di lavoro e di produttività.
C’è poi chi esercita una libera professione, quasi sempre iscritto ad un apposito Albo Professionale, e c’è soprattutto il popolo variegato ed eterogeneo delle partite iva: commercianti al dettaglio o all’ingrosso, artigiani specializzati o piccoli imprenditori nel settore del terziario avanzato.
Ebbene, per far sì che lavoratori così diversi fra loro impieghino al meglio le loro giornate aiutando l’Italia a crescere con loro ci vorrebbe la discesa in campo di una classe politica e sindacale al passo coi tempi.
Persone, cioè, in grado di ragionare in termini di macroeconomia prima di prendere decisioni troppo affrettate. O persone in grado di coinvolgere le forze lavoro in sacrifici necessari a far ripartire la locomotiva produttiva italiana, da troppo tempo ferma per mancanza cronica di risorse, idee, entusiasmo.
Né con Berlusconi, né tanto meno oggi col nuovo governo Prodi invece si osservano segnali di tutto questo: se prima il centrodestra non volle turbare gli equilibri precari raggiunti con l’aumento indiscriminato del contratto degli statali a maggio del 2001, oggi Pierluigi Bersani, neo-ministro delle Attività Produttive, propone di liberalizzare attività produttive senza che nessun collega di governo, per contro, costringa il parastato a rinunciare a qualche suo inestinguibile privilegio.
Grave errore strategico, questo! C’era una volta un certo Menenio Agrippa: il suo apologo sul funzionamento degli organi del corpo umano, recitato al popolo romano, riuscì a dissuaderlo dalla volontà di non aiutare più la repubblica.
Ora i tempi sono mutati e nessuna TV o quotidiano nazionale si rifiuterebbe di appoggiare un governo serio che obbligasse, nel nome del ripianamento del deficit economico, tutti, ma proprio tutti i lavoratori italiani a rinunciare a qualcosa, nel proprio piccolo.
Ma Prodi tutto questo non lo sa, o finge di non saperlo: peccato, è questa l’ennesima occasione persa di modernizzare una volta per tutte la nostra disastrata nazione!

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