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14 novembre 2005

ASPETTANDO FIORENTINA-MILAN ...



Domenica prossima al Franchi non va in scena solo la sfida fra i due più bravi attaccanti italiani del momento: Luca Toni e Alberto Gilardino.
Domenica al Franchi ci sarà una grande classica della Serie A, fra due società che hanno avuto in comune nella loro lunga e gloriosa storia diversi campionissimi.
Il primo della lista fu un brasiliano dalla classe cristallina, secondo alcuni persino superiore a quella del contemporaneo Pelè: ma aveva un caratteraccio, mannaggia a lui!
Amarildo Tavares de Oliveira, per tutti Amarildo, fu il mio primo idolo calcistico: arrivò nel Milan di Felice Riva l'anno dopo la conquista della prima Coppa dei Campioni a far coppia in attacco con Josè Altafini.
Lui dinoccolato, tocco di palla sublime e nero come il carbone, l'altro - l'attuale brillante commentatore di SKY - un concentrato di potenza e rapidità: insomma, due così sulla carta avrebbero dovuto fare la differenza, invece naufragarono miseramente nell'incomprensione reciproca, rivelandosi come due grandi prime punte, incapaci di farsi da spalla l'un l'altro.
Amarildo collezionò gol a raffica, certo, ma anche squalifiche in serie per il rapporto funesto che ebbe in rossonero con gli arbitri.
Ci fece vincere solo una Coppa Italia nel 1967, col Padova all'Olimpico di Roma, poi fece le valige per Firenze.
Lì trovò un allenatore, Bruno Pesaola detto il Petisso, per inciso il più grande fumatore di sigarette del mondo dello sport, che ebbe pazienza e lo inserì in una linea d'attacco comprendente fra gli altri un giovanissimo Giancarlo De Sisti come mezz'ala sinistra. Amarildo fu l'unica prima punta di una squadra viola allora formidabile macinatrice di bel gioco. Passò infatti una sola stagione e in Piazza della Signoria avrebbero festeggiato il secondo storico scudetto!
A fare da seconda punta fu lanciato un giovane piccoletto tutto riccioli e dal piede sinistro flautato, tanto accarezzava bene con l'interno la sfera, sui calci d'angolo come sulle punizioni dal limite: era Luciano Chiarugi da Ponsacco (Pisa).
I destini dei due s'incrociarono e, tempo un anno dopo l'impresa del 68/69, il nuovo Milan di Albino Buticchi e di Nereo Rocco volle il giovane toscano a far da terminale al grande Gianni Rivera.
Che linea d'attacco strana avevamo, allora! Sogliano, il 7, era un antenato di Gattuso: marcatore feroce come pochi sapeva però tenere la squadra alta. Il numero 8 era il biondo bolzanino Romeo Benetti, allevatore nel tempo libero di canarini, una mezz'ala di contenimento potente tiratore dalla distanza. Centravanti era invece il padovano Albertino Bigon, fisico apparentemente poco atletico ma furbo e opportunista come pochi: se non fosse stato per il malefico comportamento di Concetto Lo Bello da Siracusa e per lo strapotere della FIAT in quegli oscuri Anni Settanta, suo sarebbe stato il gol dello scudetto nella disgraziata stagione 1972/73: all'Olimpico contro la Lazio di Long John Chinaglia!
Il numero 10 era un certo Gianni Rivera: un nome una garanzia, in fatto di bel gioco.
Ala sinistra era appunto Luciano Chiarugi. L'ex viola ogni tanto tendeva a nascondersi durante le gare più accese e il Paròn s'infuriava non poche volte con lui.
Ma quante magiche punizioni dal limite realizzò il nostro adorabile Mattocchio! Una per tutte, quella che ci fece vincere a Salonicco la seconda Coppa Coppe contro il Leeds di Jacky Charlton, di Brenner e di un giovanissimo Joe Jordan, lo Squalo dei nostri anni più disgraziati, i primi degli Ottanta.
Ad Amarildo e a Chiarugi, degni protagonisti il primo più con la maglia viola, il secondo più con noi, aggiungo l'Uccellino, non quello efebico che dà vita alla più insopportabile campagna pubblicitaria dei nostri giorni, ma lo svedese Kurt Hamrin, ala destra minuscola ma dal tiro inenarrabilmente preciso, e il più talentuoso portiere italiano del secolo scorso.
Parlo di Ricky Albertosi, cui l'insana passione per le scommesse e il gioco d'azzardo sottrasse quel che Madre Natura aveva concesso: la Classe Vera del Numero Uno.
A Firenze videro i suoi inizi solamente, noi lo ereditammo dal Cagliari scudettato del 1969/70 e lo amammo, parlo come tifoso, alla follia fino al tradimento del calcio scommesse. Che tristezza per lui! Ma reagì da uomo vero senza trincerarsi dietro scuse di comodo: Albertosi paga ancora adesso con l'anonimato che si riserva alle mezze figure, lui che potrebbe raccontarne di cose viste su tutti i campi di gioco di mezzo mondo! Al grande Ricky vada il mio personale augurio di restare se stesso: un Uomo, cioè, da Milan fino alla fine della sua tormentata, ma anche vincente, esistenza terrena!

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